"Nebbia"

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Rogozin
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"Nebbia"

Messaggio da Rogozin »

Buonasera a tutti :)
Visto che siamo in zona relax, condivido non sollecitato un mini raccontino che ho scritto di getto qualche tempo fa. Per completezza vi dico che originariamente è stato scritto con una Omas Milord nera in resina con pennino extra-fine, ma vi risparmio l'agonia di leggere il mio tratto e incollo direttamente la versione digitale :)

Ma senza altro aggiungere o premettere, ecco il brano che molto originalmente ho intitolato "nebbia".

Nebbia



La sensazione fu improvvisa, come il ridestarsi da oziosi pensieri che, lungi dall’essere ricordati, lasciavano però quella scia di sensazioni appiccicose che in genere finivano per accompagnarlo durante tutta la giornata.

Corresse la rotta della macchina che, lasciata a se stessa, tendeva ad andare leggermente a sinistra. “Devo far rifare la convergenza delle ruote”, pensò come faceva ogni volta che si accorgeva di quel piccolo dettaglio.

Rifare la convergenza delle ruote? Si diceva così? Non si intendeva molto di macchine e motori in generale, per lui le automobili erano semplicemente dei mezzi di locomozione che ti portavano da un punto A ad un punto B.

E proprio quello stava facendo in quel momento: stava andando dal punto A al punto B. Qualunque essi fossero. Già ma quali erano?

Scacciò l’ombra di quel pensiero inquietante, ed accese l’autoradio.

Come ormai da un po’ di tempo a questa parte, solo scariche statiche su tutti i canali inframmezzate da quelle che potevano essere voci lontane e bisbigli che si fondevano talvolta in un ronzio uniforme.

“Devo far riparare l’autoradio”, un pensiero formulato a bassa intensità, con toni sbiaditi tante dovevano essere state le volte che gli aveva attraversato la mente. Come al solito il pensiero successivo fu di ricomprare la macchina, tante erano le piccole riparazioni da fare, ma a questo avrebbe pensato più avanti.

Adesso era altro a preoccuparlo, ed era la luce sbiadita dei fendinebbia che non riuscivano a penetrare la fitta foschia imperlata di gelide gocce d’acqua a formare bianchi e alieni arabeschi.

“Dovrei far controllare questi fari… ma perché li chiamano fendinebbia poi? Non sto fendendo un bel nulla”.

Un moto d’irritazione, subito represso dalla sensazione di soffice abbraccio di quelle che altro non erano che nuvole a livello del terreno.

Da qualche parte aveva letto che la nebbia era formata da gocce d’acqua della dimensione di circa 40 micron.

Se avesse saputo dare una percezione visiva al micron, o avesse avuto anche la minima idea di cosa significasse, forse avrebbe potuto anche immaginarsele danzare silenziose in quelle spire così irrazionali e al tempo stesso ipnotiche che adesso stavano avvolgendo il suo veicolo e, presumibilmente, anche gli altri sulla strada.

Già, perché sembrava che quella mattina non ci fosse nessuno in giro. Ogni tanto intravedeva la luce di un fanale che scompariva velocemente com’era apparsa. Il rumore di quello che poteva essere un motore solitario e assonnato che scivolava pigro sul manto stradale bagnato a malapena udibile sopra il rumore del suo stesso respiro.

“Devo dormire di più. Decisamente”

Per come si sentiva, la nebbia poteva tranquillamente essere penetrata in macchina ed avergli avvolto la testa e il corpo in morbide coperte e cuscini.

“No, il colpo di sonno no… devo dormire di più, la notte”.

Si perché con tutto il sonno che aveva, sicuramente aveva dormito poco. Ma cos’aveva fatto?

Disagio.

“Effettivamente devo far rifare la convergenza delle ruote… e questa maledetta autoradio!”.

Si era appena accorto che era ancora accesa e con un gesto automatico la spense. I ronzii, le voci e il bisbiglio sommesso cessarono.

“Devo dormire di più…a che ora sono andato a letto ieri?”

Non doveva essere stato tardi, non usciva la sera in genere. Ma allora cosa aveva fatto? Perché aveva tutto questo sonno? Probabilmente, come spesso succedeva, aveva letto fino a tardi, o guardato un film, o magari anche due o tre. E il tempo doveva essere trascorso senza avvertirlo, salvo poi lasciarlo la mattina stordito e confuso.

Ma non era convinto.

Una luce passò accanto alla sua macchina, la affiancò per qualche secondo e poi proseguì, di nuovo quel ronzio.

Per un attimo si sentì meno solo, e provò ad immaginare quale sarebbe stata la giornata di quell’altro automobilista. Come si era svegliato? Cosa aveva fatto la sera prima? E cosa avrebbe fatto domani?

Ma durò tutto pochi secondi; dopo una curva, presa molto larga e lentamente per via della scarsa visibilità, già pensava ad altro.

Cercò di ricordarsi nuovamente cos’avesse fatto la sera precedente, e di nuovo provò quella familiare sensazione di disagio che già altre volte aveva dirottato i suoi pensieri verso altre direzioni.

Non stavolta.

Si concentrò. “Allora… ieri sera sono tornato, era buio, fa buio presto in questi giorni…e pioveva… piove molto in questi giorni”.

Il disagio si trasformò in un’improvvisa e forte fitta allo stomaco che lo costrinse a rallentare, mentre con una mano si stringeva il ventre e con l’altra teneva il volante talmente stretto che le nocche gli diventarono immediatamente bianche.

Maledisse se stesso e il suo corpo che sembrava dovesse funzionare così male quel giorno.

Razionalmente non era preoccupato della fitta che, durata lunghi secondi, stava mollando la presa sulle sue viscere, dal momento che allenandosi spesso nel combattimento corpo a corpo capitava non di rado di prendere qualche colpo ed a volte ne risentiva il giorno dopo.

“Allora ieri sera probabilmente ero all’allenamento”

Per un breve attimo alberi e strada furono, se non chiari e nitidi, comunque molto più distinti. Riuscì persino a distinguere la sagoma grigia di un passante di spalle, anche se superatolo non riuscì a distinguerne i lineamenti nello specchietto retrovisore: sarebbe stato troppo.

Come a prendersi una rivincita dopo quella piccola sconfitta, la nebbia avvolse nuovamente la macchina e con lei il suo autista che, nuovamente isolato dal mondo, potè di nuovo provare a concentrarsi e pensare alla sera precedente.

“Si, sono stato ad allenarmi” di nuovo una fitta, stavolta più lunga e intensa, al ventre “Devo andarci più piano. E poi sono tornato a casa… ho parcheggiato davanti all’edicola…”

Almeno quella dentro di lui, di nebbia, si stava diradando.

E continuò a ricordare.

Vide se stesso scendere dalla macchina e proiettare un’ombra forte e definita sull’asfalto, complice il lampione esattamente a perpendicolo su di lui che lo faceva comicamente apparire come un attore di teatro al centro di un palco.

La strada era vuota, dovevano essere all’incirca le undici di sera.

Sentì il rumore di tacchi sull’asfalto: avrebbe riconosciuto quella camminata in mezzo ad una folla scalpitante solo dal rumore, doveva essere per forza lei.

Il sorriso che si formò automaticamente non poteva essere visto al buio, essendo lui uscito dal cono di luce che lo aveva circondato per affrettarsi nella direzione del rumore di quei passi.

Il sorriso si allargò ancora di più mentre pensava a qualche frase spiritosa con la quale avrebbe esordito, incontrandola. La faceva sempre ridere. Farla ridere era bellissimo ma anche terribilmente egoista: quando lei rideva, infatti, gli angoli dei suoi occhi si piegavano in un modo che lui non sarebbe mai riuscito a spiegare a parole, sapeva semplicemente che i suoi occhi mentre lei rideva erano da soli sufficiente motivo per cui nascere, vivere e morire.

Lui l’amava di quella con quell’intensità che solo chi non è ricambiato può provare. Ma andava bene lo stesso, perché l’amava abbastanza per tutti e due e glielo dimostrava facendo ciò che sapeva fare meglio: farla ridere.

Il passo affrettato era diventato un piccolo trotto, ormai doveva essere vicinissima. Erano passati solo pochi secondi da quando era sceso dalla macchina ma già aveva vissuto decine di volte quello che sarebbe stato il loro incontro casuale, quali battute avrebbe fatto e come lei avrebbe riso.

Sentì un peso sulla sua spalla che lo colse così alla sprovvista da farlo arrestare bruscamente, il flusso dei pensieri sbriciolato da quella violenta interruzione. Era una mano, che come era prevedibile continuava in un polso, in un braccio e in una persona sconosciuta che con un sorriso storto pronunciava con lenta premeditazione “Hai da accendere?”

Si vide sorridere ed iniziare a dire “Mi spiace, non fumo” come se fosse, anziché la risposta a quello sconosciuto, una sorta di orgogliosa dichiarazione fatta al mondo intero, ma le parole non uscirono mai dalla sua bocca perché il sorriso dell’estraneo si era già trasfigurato in un ghigno a denti stretti mentre affondava nel ventre dell’interlocutore una lunga lama per quattro, cinque, sei volte per poi rovistare nei pantaloni e nella giacca di quel corpo che si stava già raffreddando e sparire senza far rumore.

Di nuovo quei passi, quelli di lei, sembrava che stesse correndo adesso.I passi suonavano sempre più vicini, vicinissimi stavolta ma allo stesso tempo venivano da un mondo, una galassia, una realtà lontana, ovattata.

Aprì gli occhi e la vide, e immediatamente provò a formulare quelle battute che si era preparato nei secondi – o erano stati minuti?- precedenti ma non ci riuscì. Qualcosa era andato storto, lui non riusciva a parlare. E lei non rideva, lei piangeva. Maledizione, stava andando tutto per il verso sbagliato, lui la faceva sempre ridere, perché adesso piangeva? Sapeva che stava cercando di dirgli qualcosa, sembrava che in qualche modo lo stesse anche toccando, scuotendo, ma questo poteva solo immaginarlo perché in realtà non avvertiva alcuna sensazione tattile.

Ebbe solo il tempo di pensare che se quando rideva era bellissima, anche quando piangeva non era poi così male.

Avvertì quelle che sembravano voci concitate, allarmate che si attenuavano sempre di più e si confondevano fino a formare un monotono ronzio.



E fu come il ridestarsi da oziosi pensieri che, lungi dall’essere ricordati, lasciavano però quella scia di sensazioni appiccicose che in genere finivano per accompagnarlo durante tutta la giornata.

Spense l’autoradio, il ronzio cessò.

“Devo proprio far rifare la convergenza alle ruote” pensò mentre la macchina virava leggermente a sinistra “chissà se si dice davvero così – convergenza “ .

Non era un appassionato di macchine o di motori in generale.
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Re: "Nebbia"

Messaggio da vikingo60 »

Complimenti!Sei davvero un bravo scrittore!
Mi sembra di vederti quando scrivi con la OMAS!
Un cordiale saluto
Alessandro
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